Salve a tutti, è Il Moro che vi parla!
Un altro articolo in cui metto insieme opinioni brevi se non brevissime, su
cose che ho visto/letto/giocato e a cui per un motivo o per l'altro non mi
andava di dedicare articoli più lunghi e dettagliati. Questa volta parliamo di
tre romanzi che ho avuto difficoltà a comprendere, e a questo proposito urge
una piccola puntualizzazione: magari sono solo scemo io, il fatto che io mi
sia perso non vuol dire per forza che debba succedere a tutti.
Come sempre, scrivo questi commenti dopo aver letto i libri poi li lascio ad aleggiare tra le bozze finché non ne ho accumulati abbastanza, quindi alcuni potrei averli scritti anche parecchio tempo fa.
L'intrigo Wetware, di Michael Swanwick (Vacuum Flowers, 1987)
Credo che sia il primo romanzo che leggo di questo autore, o se ne ho letti
altri non me li ricordo. Ad attirarmi quando l'ho acquistato al Libraccio è
stata la quarta di copertina, che prometteva un'ambientazione immaginifica, un
sistema solare interamente colonizzato, la possibilità per la gente di
modificare artificialmente i tratti della propria personalità, gli abitanti
della Terra uniti in un unico essere senziente telepatico, insomma un sacco di
carne al fuoco. Uno di quei romanzi dove all'inizio il lettore non capisce
nulla, gettato in un mondo troppo lontano e diverso dal suo. Poi, però, pian
piano diviene tutto chiaro. Funzionano secondo questo canovaccio alcuni dei
miei romanzi preferiti di sempre, come ad esempio Universo incostante o la trilogia de L'età dell'oro.
Ma per gestire
tutta questa quantità di carne al fuoco serve un cuoco più che bravo, e mi
sembra che qui Swanwick abbia esagerato.
All'inizio non si capisce
niente. Poi si va avanti, e si continua a non capire.
Solo una
volta superata la metà del romanzo si inzia ad avere un'idea un po' (solo un
po') più chiara dell'ambientazione creata dall'autore. Bisogna arrivare quasi
a due terzi prima di capire con una certa approssimazione cosa fa in effetti
questo "wetware".
In pratica, se volete leggere il romanzo senza partire
completamente spaesati, il wetware consente di riprogrammare tratti della
propria personalità. Si può chiedere di essere temporaneamente o meno più
scaltri, più rudi, più abili in una particolare materia o compito, più o meno
romantici, eccetera. Esagerando con le modifiche si possono anche creare degli
sdoppiamenti di personalità, rendere schiava una persona o un mucchio di altri
effetti simpatici.
Swanwick butta lì un mucchio di terminologia inventata senza darci la possibilità di comprenderla, fa passare i personaggi da una all'altra stazione spaziale senza prendersi la briga di spiegarci come sono fatte (e visto che sono ben diverse da delle stazioni spaziali "classiche", oltre che diverse tra di loro sia come struttura sia come popolazione che le abita, qualche informazione in più sarebbe stata gradita). E soprattutto, se una volta superati i due terzi del romanzo si riesce ad avere un'idea per quanto nebulosa di come funziona l'ambientazione, ancora vaga rimane la storia: questi personaggi continuano ad andare in giro a fare cose e vedere gente, ma il perché lo facciano è spesso un mistero. A questo romanzo manca una direzione, delle motivazioni, una storia con un inizio e una fine, un obbiettivo chiaro da raggiungere.
L'intrigo Wetware è davvero un romanzo pieno di intuizioni e
invenzioni geniali, che però si riesce solo a intuire. Ha una protagonista
alla quale ci si affezziona e con cui si prova empatia, che però ne sa sempre
di più del lettore, non solo del mondo in cui si trova ma anche di quello che
le succede, visto che a volte tra un capitolo e l'altro ci sono dei vuoti in
cui succedono cose che Swanwick non ritiene necessario spiegarci, confidando
nel fatto che riusciamo a intuirle da soli. Insomma un romanzo che aveva la
possibilità di essere grandioso, se Swanwick non avesse voluto trasformarlo in
un enigma, una sfida per il lettore.
Non è del tutto sbagliato come
approccio, apprezzo una bella sfida intellettuale, ma in questo caso
è troppo, troppo misterioso, troppo enigmatico, e alla lunga viene
a noia. Noia che porta a proseguire la lettura senza più sforzarsi tanto di
capirla, sperando che alla fine ci sia la soluzione, come nell'ultima pagina
della Settimana Enigmistica. Spoiler: non c'è.
Alla fine dell'arcobaleno, di Vernor Vinge (Rainbows End, 2006)
Pubblicato nel 2006, questo romanzo ha vinto il premio Hugo e il premio Locus
l'anno successivo, due dei maggiori premi per la fantascienza in lingua
inglese.
Ho scoperto solo dopo averlo letto che questo romanzo è il
seguito di Tempi veloci a Fairmont High, del 2001. Non ha una
grande importanza, in verità, perché la vicenda è quasi del tutto slegata da
quella, raccontata nel precedente romanzo, ma magari avrei avuto meno
difficoltà a capire cosa sta succedendo se avessi letto prima il primo.
Intendiamoci, Vernor Vinge ha scritto uno dei miei romanzi preferiti di
sempre, Universo incostante, la cui caratteristica era proprio che
all'inizio non si capiva un accidente. Andando avanti, però, venivano dati
indizi sufficienti a ricostruire il tutto.
Anche in Alla fine dell'arcobaleno la difficoltà a capire è una caratteristica preponderante, ma non è
dovuta tanto all'ambientazione, complicata ma comprensibile, quanto piuttosto
a tutti questi sotterfugi, giochi di potere, menzogne, gente che finge di
essere altra gente che finge di essere altra gente ancora.
Ma andiamo con ordine.
Questo romanzo inizia con un incipit che mi
è familiare. Il protagonista, affetto da Alzheimer, viene curato e rinsavisce,
senza nessuna memoria dei molti anni che ha trascorso in stato di demenza.
Come in un viaggio nel tempo, Robert Gu si ritrova quindi di colpo nel
futuro.
In effetti è molto simile al mio racconto Il diario dell'amnesia, pubblicato con Hypnos. Nel mio racconto un uomo adulto viene colpito da
amnesia dimenticando completamente tutto ciò che è successo negli ultimi
trent'anni, e trovandosi così nel futuro, che però era il nostro presente.
Giuro che non ho preso spunto da questo libro, piuttosto l'idea mi era venuta
da un film comico italiano di cui ora non ricordo il titolo.
A differenza
del mio personaggio, Robert Gu non si ritrova nel nostro presente, ma nel
nostro futuro, come l'ha immaginato Vinge nel 2006... In modo, credo,
abbastanza profetico, soprattutto dopo aver visto la pubblicità dell'Apple Vision Pro (no, Apple non mi paga per questa pubblicità, quindi non compratelo).
Nel futuro immaginato da Vinge, la tecnologia indossabile ha fatto passi da
gigante. Tutti portano occhiali o lenti a contatto, abbinate
ad altre apparecchiature, che consentono loro di vivere costantemente connessi
a una realtà aumentata interconnessa. In questo mondo, dove non servono più
computer e cellulari ma la rete è diffusa ovunque, è ad esempio normale
passeggiare insieme a persone che si trovano dall'altra parte del mondo,
magari dentro un parco che in realtà è un vicolo. Distinguere il reale dal
virtuale diventa non solo difficile, ma addirittura futile, perché nella
concezione della gente il virtuale non è meno reale del reale solo perché non
lo puoi toccare. Persone e cose sono talmente connesse che un hacker non
hackera più gli apparecchi: hackera direttamente le persone, o gli edifici,
perché ormai tutti e tutto sono diventati di fatto dei cyborg, pur senza
innesti nella carne.
Vinge esplora diverse conseguenze di questo modo di
vivere, con un occhio particolare su quanto sia facile mentire, presentandosi
ad esempio con un aspetto diverso dal proprio. Non si sa mai con chi si sta
davvero parlando, l'interlocutore potrebbe essere una persona completamente
diversa o addirittura un gruppo di persone, perfino un'I.A..
Per quanto inizialmente spaesato, Robert Gu ci mette poco ad abituarsi a
questo sistema di vivere, e in questo sta secondo me uno dei problemi di
questo romanzo. Il personaggio di Gu era il perfetto "punto di vista esterno"
tramite il quale spiegare al lettore l'ambientazione, ma non lo rimane per
molto. Sì, magari leggere prima il prequel avrebbe aiutato, anche se i libri
raccontano due storie diverse.
L'altro difetto è il complotto in cui Gu
si trova invischiato suo malgrado, già di per sé abbastanza complicato, ma
reso ancora più complicato da Vinge che non si premura di spiegare alcunché,
con tutti questi personaggi che in realtà sono altri personaggi e i cui scopi
sembrano del tutto slegati dalle loro azioni. Sembra di guardare quei film di
spionaggio dove il protagonista va a parlare con gente che non sappiamo chi
sia di argomenti che non conosciamo, la sensazione è la stessa.
Non mi ha fatto impazzire, rimane comunque intessante per la visione di questo futuro interconnesso, che mi sembra dannatamente credibile e vicina. Si ha davvero la sensazione che, se il trend verso la tecnologia indossabile decollerà mai davvero, il mondo diventerà esattamente così. Da leggere più per sapere cosa aspettarci nei prossimi anni che per la storia che racconta.
Cultura 5: l'altro universo, di Iain M. Banks (Excession, 1996)
Il quinto volume del ciclo della cultura è anche il primo ad essere ambientato tutto all'interno delle Cultura stessa, e anche il primo che non mi sia piaciuto granché.
Nei precedenti volumi, Pensa a Fleba, L'impero di Azad, La guerra di Zakalwe e Lo stato dell'arte (una raccolta di racconti dei quali solo due appartengono a questo ciclo) la Cultura era sempre presente, ma
i protagonisti erano al di fuori di essa. A volte ne facevano parte, ma nel
caso erano stati inviati lontano, in missione. Immaginate uno Star Trek ambientato in una civiltà che non fa parte della Federazione, ma che
con la Federazione deve avere a che fare. E la Cultura è molto più invadente
della Federazione.
Qui, invece, fin dall'inizio siamo nel bel mezzo della
Cultura, una civiltà spaziale con diversi punti di contatto con la Federazione
di Star Trek, ma che, appunto, non esita a immischiarsi in tutti i modi con le
altre civiltà.
Un misterioso artefatto è comparso una remota regione di
spazio, un artefatto che pare frutto di una tecnologia ancora più avanzata di
quella della Cultura. E quella della Cultura è mostruosamente avanzata.
Se una tecnologia sufficientemente avanzata può sembrare magia, quella della
cultura fa sembrare i suoi membri delle divinità.
La cultura è dominata
dalle Menti, computer senzienti attestati di solito sulle navi spaziali, le
quali possono avere dimensioni davvero enormi. Le benevole Menti assistono gli
umani e le altre creature che fanno parte della Cultura garantendo loro
un'esistenza edonistica e utopica. Tranne che a quelli a cui chiedono di
imbarcarsi in missioni folli, come è successo a molti dei personaggi dei
volumi precedenti.
Le macchine senzienti, dalle semidivine Menti delle
Navi ai più piccoli robot da compagnia, sono enormemente superiori agli umani
sia come capacità fisiche che intellettuali (per quanto anche gli umani siano
ormai postumani, in grado di modificare i loro corpi in molti modi con
semplici atti di volontà), ma non c'è da temere, queste macchine non si
ribelleranno. D'altronde sono già loro a comandare. Il pericolo arriva da
fuori: la comparsa del misterioso artefatto è la causa scatenante di una
guerra che già da tempo la Cultura temeva, contro la cultura guerrafondaia
dell'Oltraggio.
Tutti i libri della cultura hanno sempre avuto un'impostazione spionistica. Questo non fa eccezione. Per quanto riguarda la tecnologia sia estremamente avanzata, i problemi di comprensione di questo libro non sono relativi ad essa, come è successo ad esempio con i libri di cui ho parlato sopra, ma proprio perché come in molti film di spionaggio ci sono un sacco di personaggi (ma proprio un sacco, tra post umani, alieni, robot e navi [sì, le astronavi sono gli esseri senzienti che dominano la Cultura e quindi personaggi a tutti gli effetti, e pure tanti]) che vanno in giro a fare cose e vedere gente senza premurarsi di spiegarci perché lo stiano facendo. Ci sono svariate linee narrative che vanno avanti ognuna per conto suo, e di svariate di queste non sono riuscito a capire cosa c'entrassero con il resto. Mettiamoci inoltre i nomi, molto complicati e difficili da ricordare, sia quelli bizzarri delle navi che i mucchi di lettere buttati a caso delle creature biologiche e dei robot, e vediamo come cercare di capirci qualcosa rischi di diventare parecchio complicato, tanto più che oltre ai nomi l'autore dà ben poche descrizioni dei suoi personaggi, per cui si tende a immaginare tutte le Navi fatte nello stesso modo e quindi a confonderle.
Tutti i libri della Cultura sono storie a sé stanti. In linea teorica non sarebbe necessario leggerli in ordine, ma in realtà è meglio farlo perché alcune cose dell'ambientazione non sempre vengono rispiegate nei romanzi successivi. Questa sensazione è ancora maggiore in questo volume, dove per esempio non ci viene spiegato il significato di quasi nessuna delle sigle che vengono spesso utilizzate per riferirsi ai modelli delle Navi e altro.
Solo verso la fine sono riuscito a raccapezzarmi un po'. Molti personaggi erano ormai usciti di scena, quindi è stato più facile ricordarsi chi era chi e dove si trovava, e quelle che sembravano svariate linee narrative si sono unite in due principali. La mia confusione, ho concluso, oltre che a un problema con i nomi che magari è solo mio, è probabilmente stata causata dall'aspettativa che tutte le linee narrative dovessero in qualche modo confluire o intersecarsi. Invece, le due rimanenti alla fine del libro quasi non sfiorano, neanche nel finale.
A questo punto spero che il prossimo volume della saga abbia di nuovo un punto di vista esterno alla Cultura. Perché chiaramente continuerò la lettura, non basta un inciampo come questo a rovinare una saga eccezionale. Ne esistono altri tre in italiano, di cui l'ultimo, Matter, è stato pubblicato in Italia nel 2024: era pure ora, visto che l'originale è uscito nel 2008! Chissà se seguiranno anche gli ultimi due volumi del ciclo?
Il Moro
Gli altri romanzi di fantascienza di cui ho parlato nel blog


















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